mercoledì 5 ottobre 2011

L'uomo e la Bestia

L’uomo e la Bestia

“No, uomo, non mi avrai, non mi avrai..., non... mi avrai..., non...mi...avrai...”.
Il capriolo si trascinava penosamente , con il cuore che scoppiava, cadendo, rialzandosi, sbatacchiando a destra ed a manca contro i tronchi ed i bassi rami della boscaglia tante volte percorsa agile e scattante, pieno di quella vita che il piombo gli andava rubando; che toglieva, lentamente, la luce dai suoi occhi; che faceva colare a terra, dallo squarcio sul collo, il suo giovane sangue.
No, il suo corpo non sarebbe finito su mense traboccanti di vini, fra cantori ebbri e volgari; la sua gola non avrebbe sentito il freddo della lama che gli toglieva quel resto di vita che gli era rimasta addosso; il suo bel capo non avrebbe ornato la casa di chi non di fiori, di quadri o di specchi ama abbellirla, ma dei crani delle sue prede; ed il carnefice non avrebbe ostentato, a guisa di trofeo, il sangue della vittima schizzato sul fustagno della sua casacca.
E passo dopo passo, vincendo il dolore lancinante e la tentazione di arrendersi , di buttarsi a terra e di non pensare più a nulla in attesa del colpo di grazia, la meta si avvicinava: ancora pochi metri e ce l’avrebbe fatta.
Giunto sul ciglio della “Busa fonda” si fermò un attimo reggendosi, con uno sforzo supremo, sulle quattro zampe, a respirare, avidamente, per l’ultima volta l’aria pura dei suoi monti: poi si lasciò andare librandosi per un attimo, assaporando l’ebbrezza del volo, prima di toccare il fondo dell’abisso.

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“Ti fermerai, brutta bestia, non puoi farcela ancora per molto” pensava l’uomo mentre arrancava, sbuffando, sulla montagna, seguendo le tracce di sangue del capriolo che si facevano sempre più larghe.
Quella volta non gli era sfuggito: dopo essere stato più volte beffato dall’animale che pareva farsi gioco di lui, l’aveva infine sorpreso nell’attimo in cui, forse per eccesso di sicurezza (o per sfida?) aveva lasciato il bosco percorrendo un breve tratto di radura, allo scoperto: e ciò era bastato perché il vecchio cacciatore andasse a segno, ma non tanto da farlo stramazzare.
Così, l’inseguimento fra l’animale ferito e l’uomo era iniziato: e quando, fattosi più rado il bosco la vide sul ciglio del precipizio, il cacciatore, stremato e ansimante, non ce la fece a puntarla, per finirla, che già la bestia era scomparsa.
“Maledizione” pensò l’inseguitore “e mò chi lo piglia?”.
Il burrone che tagliava in due la montagna era stato formato dal torrente che ora scorreva sul fondo: nei secoli, la costanza dell’ acqua aveva avuto la meglio sulla roccia, e le due pareti si elevavano ora, alte e ripide, per un centinaio di metri.
L’uomo si affacciò sul baratro e vide, là sotto, l’animale privo di vita.
“Bella bestia” pensò, “venti chili di carne tenera, peccato perderla”.
Così, decise che avrebbe percorso il ripido sentiero scavato nella parete e, arrivato in fondo, caricata la preda sulle spalle, avrebbe seguito il corso del torrente fino alla strada e poco dopo sarebbe arrivato a casa.
Iniziò la discesa ma, giunto nel punto ove il sentiero era più ripido uno spuntone di roccia al quale si era aggrappato cedette, e fu un gran volo.
Ebbe la sensazione che non fosse lui ad avvicinarsi velocemente a terra, ma che fosse questa ad elevarsi, repentinamente, fino a lui: e giacque, con il cranio spaccato, a pochi metri dal capriolo.
Non morì subito: ebbe il tempo di guardarlo e di pensare che, alla fine, a farci una bella figura era proprio quella bestia nobile e fiera anche nella morte, il cui sangue, colato dalla ferita, lo rendeva simile ad un eroe caduto in battaglia.
Lui, invece, si trovava lì con mezzo cervello fuori, le gambe disarticolate scompostamente e le braccia distese come un Cristo in croce.
Pensò che quello aveva fatto una bella morte mentre di lui si sarebbe ricordato che era stato tratto in inganno da una pietra traditrice: e qualcuno, chissà, avrebbe pure detto che ci poteva stare più attento.
E tirando l’ultimo respiro, si rese conto di invidiarla, quella Bestia morta per salvare la sua dignità, mentre lui ci aveva lasciato ingloriosamente la pelle per venti chili di carne tenera. Giovanni Zannini

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