domenica 24 agosto 2014

LE "FUGHE" DEI RE NELLA II GUERRA MONDIALE

Ritengo  improprio il termine “fuga” attribuito da molti (troppi) alla decisione di quei  sovrani europei che, durante la II guerra mondiale, lasciarono il loro paese invaso dai tedeschi per trasferirsi in Inghilterra.
Non si trattò, infatti, di un allontanamento determinato dalla personale preoccupazione di sottrarsi alla cattura ed alla conseguente prigionia in mano tedesca, che potrebbe giustificare il termine “fuga”, sibbene del desiderio, vero obbligo costituzionale,  di salvaguardare la sopravvivenza della personalità giuridica degli stati dei quali erano legittimi rappresentanti   sottratti dalla violenza nazista alla loro sovranità in attesa di rientrarvi  dopo  l’auspicabile  cessazione dell’impedimento  provocato dall’invasore. 
E furono essi a nominare quei “governi in esilio” che cercarono di tutelare per quanto possibile gli interessi delle rispettive popolazioni temporaneamente sotto il potere  illegittimo della Germania occupante.     
Per questo, anziché parlare di re “fuggiti” a Londra,  ritengo si debba più propriamente parlare di re “rifugiati” in Inghilterra che generosamente diede loro ospitalità in  attesa di tempi migliori.     
Esaminiamo singolarmente il comportamento di questi sovrani.
In GRECIA il re Giorgio II dopo la capitolazione dell’esercito greco avvenuta il 21-4-1941 si rifugia a Londra ove forma il governo greco in esilio.
In JUGOSLAVIA il re Pietro II dopo la capitolazione dell’esercito jugoslavo avvenuta il 17-4-1941, in concomitanza con quella greca, conseguente alla comune massiccia offensiva tedesca nel sud-Europa, si rifugia a Londra ove costituisce il governo della Jugoslavia in esilio.    
In NORVEGIA il re Haakon VII  combatte assieme ad un corpo di spedizione anglo-francese contro l’invasore tedesco, ma dopo la battaglia perduta di Lillehammer, il 7-6-1940 si imbarca a Narvik assieme agli alleati diretto a Londra ove forma il governo in esilio. 
L’OLANDA è un caso particolare.  La regina Guglielmina, infatti,  sfuggita alla cattura dei tedeschi invasori, il  13 maggio 1940 fu tratta in salvo da un cacciatorpediniere inglese che la trasportò a Londra ove non costituì un governo in esilio, ma donde continuò con discorsi e messaggi giornalieri trasmessi da radio “Oranje” da Londra e dal Canada, ove si era trasferita,  ad animare  la resistenza  del suo popolo contro i tedeschi.
E l’ITALIA?
La pretesa “fuga” da Roma per sfuggire alla cattura tedesca  consentì al re Vittorio Emanuele III di mantenere la legittima rappresentanza dello Stato italiano nei confronti degli alleati vincitori riducendo, per quanto possibile, con la cobelligeranza, i danni di una guerra perduta.
Oltretutto, la presunta “fuga” non fu tale anche perché non avvenne, come nei casi che precedono,  verso l’estero:  nella realtà si trattò del “trasferimento” della sede del potere reale dalla capitale Roma a Brindisi, città italiana ancora libera perché solo successivamente raggiunta dagli alleati.
Ciò detto per la necessaria obbiettività,  va invece criticato il modo con il quale  il  sovrano, il suo governo e le autorità militari al  seguito attuarono  malamente, in maniera confusa e disorganizzata, il suddetto “trasferimento”. 
Gravissima  fu infatti la responsabilità  del re e del suo governo per  non aver opportunamente programmato, in tempo utile,  lo sganciamento   dell’Italia dalla Germania e di non aver predisposto i relativi piani operativi, allontanandosi invece da Roma senza aver diramato le opportune disposizioni, e lasciando  i militari italiani, in Italia ed all’estero,  allo sbando,  in condizioni altamente drammatiche, privi di ordini e nella confusione assoluta.
Ma la bontà della scelta di quei sovrani che per mantenere viva la personalità dello stato da essi rappresentato si “rifugiarono” a Londra, rispetto a quelli che, pur spinti dal nobile desiderio di condividere con  il proprio popolo la sofferenza dell’occupazione tedesca, restarono in patria,  emerge dalle conseguenze negative del comportamento da essi tenuto.
In BELGIO il re Leopoldo III, dopo aver, con iniziativa personale non prevista dalla costituzione firmato il 28 maggio 1940 la resa con i tedeschi decise di rimanere in Belgio e di non seguire il suo governo in esilio per, come egli disse, “seguire il destino delle mie truppe”. Ma il suo tentativo di convivere  con l’occupante  fallì ed egli fu relegato, prigioniero, nel castello di Laeken ove, fra l’altro, intrecciò un rapporto amoroso con  la signora Mary Lilian Baels (poi principessa Liliane de Réthy) conclusosi con un matrimonio che suscitò grandi polemiche e che nocque grandemente alla sua popolarità.
In DANIMARCA il re Cristiano X di fronte all’irrompere, il 9 aprile 1940, del tedesco nel proprio stato, nell’impossibilità di opporvisi perché praticamente privo di forze armate, firmò il 9 aprile la capitolazione che prevedeva l’impegno  danese di non compiere atti ostili verso l’occupante, e da parte di quest’ultimo  di non violare i diritti costituzionali della Danimarca. In realtà il comportamento del sovrano che rifiutò di andare all’estero (come fecero i suoi “colleghi” norvegesi ed olandesi) ove dunque non vi fu un governo danese in esilio, fu piuttosto  equivoco e,  pur manifestando la propria apparente indipendenza dall’occupante con quotidiane passeggiate a cavallo per le vie di Copenaghen, i suoi discorsi politici si discostarono di poco dalla volontà del governo di cooperare con le forze d’occupazione.

Ecco dunque perché, in conclusione, si ritiene errato affermare che siano “fuggiti” quei sovrani che durante la II guerra mondiale si trasferirono all’estero per testimoniare la sopravvivenza giuridica dello stato da essi rappresentato  dopo l’occupazione nazista, tenendo così accesa la fiamma della libertà del proprio popolo.
E’ invece  esatto dire che essi furono dei “rifugiati” all’estero, anticipatori delle migliaia di “rifugiati” che, come le teste coronate di un tempo,  difendono oggi la loro libertà conculcata nei paesi che  generosamente li ospitano.  
     

                                                                                                                         Giovanni Zannini

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